venerdì 4 ottobre 2024

Francesco Dalessandro

 PREMESSA A CAMILLO FONTE

 

 

Le “petrose” e la Commedia

 

 

«Era un uomo tormentato», disse il Preside al cronista,

«senza certezze, e nemmeno speranze, credo io,

se ha potuto far questo». Intervenne

il fratello: «Ma era un poeta! Anche se

lo sapevamo in pochi, Preside. Neanche lei.

Tutto il tempo a studiare, da ragazzo… Lo ricordo

molto bene. Ore e ore da solo

a leggere Dante. (Finché non s’innamorò,

poveretto, della donna che gli ha rovinato

la vita)». Ma questo lo disse a voce bassa,

fra sé, come fosse un inciso che agli altri

non doveva interessare.

«Da insegnante, aveva un modo

che incantava i suoi studenti. Non c’era,

in come insegnava (questo, Preside, lo sa),

proprio niente di accademico.

Le sue lezioni – che qualcuno giudicava

stravaganti – interessavano tutti. Tutti quelli

che avevano la fortuna di seguirle.

Aveva un suo metodo…». «Di che

metodo si tratta?» lo interruppe il cronista.

Può spiegarsi?» chiese ancora. Severino

lo guardò, lo fissò per un attimo negli occhi.

«Certo» disse. Ma fece passare

qualche attimo prima di riprendere

a parlare, rivolto al cronista. «La sua prima

lezione fu quella, credo, che, una volta,

fece a me per spiegarmi una teoria

sulla Commedia (non so dirle come e quando

l’avesse sviluppata, ma dev’essere partito da lì

per mettere a punto il suo metodo d’insegnamento).

 

“No, sai? non ne ho voglia”, mi disse una mattina

in cui volevo che venisse al mare.

“Il caldo mi uccide…» disse. «Non ti va

di sederti? Voglio dirti

una cosa che ho scoperto su Dante e la Commedia.

Dovrai dirmi se la mia interpretazione

ti convince o se è solo un mio delirio”.

Poi vedendomi scettico aggiunse: “Ma non sei

obbligato ad ascoltarmi”.

E dopo un attimo d’indugio: “E se devi

andare…”. No, resto, gli dissi, perché sono

curioso. E sedetti di fronte a lui,

in penombra, davanti alla finestra dello studio…».

                     

Qui si interruppe, si rese conto che al cronista

la teoria del suicida su Dante poteva non interessare.

«Ma forse l’annoio», gli disse. «Mi scusi.

E, quel che sto dicendo, ai suoi lettori…».

«No, certo», quello disse. «Ma… chissà?».

«Però a me interessa molto. La prego, continui».

Così Severino riprese con calma

a raccontare di quel giorno di giugno col fratello.

«Aveva chiuso il libriccino che leggeva,

le Rime di Dante nell’edizione della BUR.

Quella grigia, ve la ricordate?.

Con l’indice fra le pagine, “Sai?” disse

“L’ammirazione di Dante per il magistero

formale di Arnaut Daniel

credo fosse un tormento, per lui”.

Poi tacque per qualche secondo, come se aspettasse

da me un’eccezione, un commento.

Io non chiesi, non dissi

proprio niente. E nemmeno fui curioso

di chiedergli cosa intendesse e perché l’ammirazione

dovesse essere un tormento. Aspettai,

guardandolo serio, che riprendesse a parlare,

Aveva sul volto una luce

di viva intelligenza, una fremente ansia di dire.

Ma “lo diventò” volle allora precisare,

come se mi avesse letto

negli occhi la muta domanda, “dopo aver

messo a frutto quel che aveva imparato

dallo studio del provenzale in quelle canzoni

cosiddette ‘petrose’ (due sono bellissime

sestine, una doppia, un vero tour de force), 

che rappresentano quanto di meglio aveva scritto

prima della Commedia.

Ma alla luce posteriore del poema – questo penso –

le considera un peccato d’orgoglio”.

Parlava guardandomi negli occhi, ma senza vedermi.

E nemmeno allora io dissi niente. E non seppi

far altro che ascoltarlo. “Un peccato letterario”

riprese “il peccato di un gioco

formale spinto all’eccesso

e di un parlare, di un dire ‘aspr’e sottile’

di difficile comprensione”.

Tacque ancora come aspettasse un commento,

uno stupore...

“Vuoi dire che quella è la “selva

oscura”? Oh, fu lieto della domanda!

“Sì, bravo!” disse e riprese:

«Perché Selva è metafora classica, nella poesia latina,

in particolare in Virgilio –

che per Dante è autore e maestro, lo sappiamo –

del fare poetico. E la ‘diritta via’,

la via smarrita è quella di un contenuto

etico della poesia.

Un contenuto, non solo di raffinatezza formale,

ma che permei la forma.

Manca questo alle ‘petrose’? È là lo scacco?

Fu per fargli scontare quel peccato

che ‘il miglior fabbro’ venne messo in Purgatorio

(lo incontriamo, ricordi? nel canto XXVI:  

Ieu sui Arnaut, que plor e vau cantan)? 

La Commedia è il riscatto di Dante dallo stesso peccato?”

Domanda retorica. Lui quello pensava».

Qui tacque ancora, Severino, guardando il cronista

che in silenzio e a capo chino sembrava

riflettere su quello che aveva appena ascoltato.

«Ma suo fratello ha lasciato qualcosa di scritto?»

gli chiese «Per esempio questa piccola lezione

di poesia sulla Commedia?

O su altri argomenti. O saggi di lettura…

A parte le poesie, naturalmente, quest’è chiaro».

Non sapeva cosa dirgli, ma promise

di guardare fra le carte restate nei cassetti.

Si scambiarono i telefoni. Il cronista ringraziò.

E promise, andando via, un articolo senza pregiudizi.

 

Due giorni dopo, Severino lo cercò. S’incontrarono

al giornale: gli portò

i testi di quattro lezioni che Camillo

aveva trascritto in poesia. Come fossero racconti.




mercoledì 2 ottobre 2024

Alessandro Ricci

 MARE D'ARAL

 

Una carretta dei laghi gonfia reclina relitta

s’una riarsa duna stata una sirte un tempo:

la tua solita tresca di compassione s’inganna

se la speri soltanto ferita:

quella nave non sta morendo,

è morta male.

                       I lenti convogli, le pigre carovane

che in turni sempre più rari, più avviliti che

usuali, trascinano merci già logore

su claudicanti tratturi, l’hanno

ormai traghettata, ma non

a riva: dalla disattenzione

all’oblio.

               Così,

dal tuo sporco orlo ritratto, giallo

d’un giallo livido, tra le vampe esalate

traspare il suo unico squillo,

la ruggine del suo colore.

                                            Da lì,

dove la vedi a tratti in mezzo al sale

che sale, t’accade una voglia dolorosa

di misurare, e frughi nella distanza

altri più antichi, più lontani relitti

al largo di sabbia o del nulla: malfermi

puntini neri, che gli occhi miopi                                                                                            

consentono solo

di travedere ma tutto

il tempo a ritroso e la moltiplicazione,

la fuga degli spazi

svelano come chiari verdetti: che tocca

chiudere il conto, d’ora all’indietro, anno

dopo anno, fino al comune

momento del varo, in qualche arso

cantiere uzbeco o sotto una fosca

luce d’oltraggio: una superstite

lampada cuneese.

                             Come là

giù le chiglie sventrate dalle dune

che le divorano: la prima, le ultime

ed altre ancora – chi sa? fino

alla fine del suono –, in un’inospite Scizia dove

per suono dicono ronzio del deserto che avanza,

per vita sgomento per la vita che manca,

ma non lo vedi? hai ficcato i piedi in uno stesso

marcio arenile, e l’intera memoria

senza pietà.

                   Terra, terre di sterro, bruciori, odori

sturati in roghi fulminei

o fatui, ma è

un’unica pressa, un unico spasmo: lagune e silenzi

di sabba schiacciati, di

tempo e orizzonte avvitati:

un calibro solo,

una ferita enorme,

albume abbacinato, cenere sparsa,

macchia, poi più

nient’altro che orma,                                                                                                              

limo, com’è naturale

che sia.


da Tutte le poesie, Europa Edizioni, 2019