QUATTRO LEZIONI DI CAMILLO FONTE
NOTIZIA
Il racconto in
poesia che i frequentatori di questo blog hanno letto venerdì scorso e per il
resto della settimana, è stato scritto da me dopo lunga esitazione e
ricostruisce in versi quanto raccontò – dopo il suicidio di suo fratello Camillo
e nelle circostanze riferite – Severino Fonte. Lo stile – vagamente gozzaniano,
come mi è stato fatto notare – prova ad imitare quello di Camillo nelle Quattro
lezioni che leggerete nei prossimi giorni).
Come già riferito
nell’introduzione a L’isola (Edizioni Il Labirinto, 2022), Camillo Fonte
– poeta quasi del tutto inedito e sconosciuto – insegnava italiano e storia in un istituto
tecnico de L’Aquila, quando si suicidò. I testi delle lezioni, scritti in versi
e in terza persona, proprio come racconti, furono trovati da Severino in un cassetto
della scrivania, dopo la sua morte. Probabilmente, altri ne sarebbero seguiti,
ma non possiamo saperlo. Come non possiamo sapere se quelle lezioni furono
davvero tenute da Camillo ai suoi aspiranti ragionieri.
Come accenno nel mio
testo, Severino li fotocopiò e consegnò al giornalista che aveva dato la
notizia del suicidio di Camillo, e che si era mostrato così interessato a
leggerli: pare che ne volesse scrivere, ma non ne fece mai niente.
Quest’estate, ho
ritrovato anch’io, in un mio cassetto, a distanza di anni, i quattro testi –
che mi erano stati donati da Severino e che, colpevolmente, io stesso avevo
completamente dimenticati (altrimenti li avrei inclusi ne L’isola, col
poemetto omonimo e le poesie d’amore). Rileggendoli, mi è sembrato giusto dare
loro la visibilità che meritano, in attesa di includerli nel libro in una
futura riedizione. Perciò ho sentito necessario scrivere quel testo, Le
“petrose” e la Commedia, che le introduce. Non so chi, leggendo, sarà
d’accordo. Ma, appunto: leggere per giudicare. Le tesi elaborate nelle singole
lezioni possono essere considerate e valutate come si vuole e si crede, ma non
si può negare che abbiano un’onesta e intrigante bellezza e profondità. Ecco la
prima.
Prima
lezione: Alla
sera di Foscolo
«‘Forse perché della fatal quïete’ è il
primo verso
di Alla
sera di Foscolo. Riuscite a immaginare
un verso più audace di questo, un verso
che
mette in crisi tutta la tradizione
petrarchesca
precedente?» Gli studenti seguivano in
silenzio,
ammaliati dalla sua voce bassa ma chiara.
Mattina piena di luce, un raggio che
scendeva
trasversale si posava sulla cattedra e
rimbalzava
sul nero della lavagna dov’era scritto LEZIONE
SU “ALLA SERA” DI FOSCOLO. «Credo
che poco – solo Leopardi – riesca a
stargli
alla pari nella poesia successiva» stava appena
dicendo, camminando davanti alla cattedra.
«Pensate un verso che comincia con due
avverbi!
(Prima solo Della Casa aveva osato
qualcosa
di analogo. In un sonetto che iniziava con
“Forse però”, ma il verso e il resto è mediocre.
Ma Della Casa, ragazzi… Ve lo ricordate?»
Attese il “sì” dei suoi studenti. Uno solo,
ma gli altri annuirono, restando sospesi.
«Ne abbiamo parlato a proposito di quel
sonetto bellissimo sulla “selva
solitaria”,
dove “non v’è quasi verso che non passi
l’uno nell’altro”, come dice Tasso». Di
nuovo
sospese la voce guardandoli e aspettando.
“Sì”, dissero tutti. Sorrise. «E adesso
spostate
l’attenzione sul secondo emistichio»
riprese
«pronunciate le parole dentro di voi…»
qui tacque di nuovo, come se aspettasse
una voce. Ma nessuno osò parlare. «Sono
certo
che ne sentirete l’eufonia, e sono certo
che subito dopo anche la ragione del senso
vi sarà chiara: la “fatal quïete” è un
sospiro,
un soffio, l’ultimo respiro che è
consentito
prima di diventare l’immagine (“l’immago”)
esattissima di ciò che la metafora
esprime».
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