QUATTRO LEZIONI DI CAMILLO FONTE
Terza lezione: La
chiarezza
«Oggi parliamo di canzoni… Anzi, di
canzonette».
I ragazzi reagirono a quelle parole
agitandosi
nei banchi e mormorando increduli fra
loro.
«No, non quelle che credete – che
ascoltate
ogni giorno alla radio. Parleremo di
“canzonette
poetiche”, di quelle che i poeti
scrivevano
nel Settecento e oltre… » Delusi, i
ragazzi
ammutolirono. Lui continuò ignorando
le reazioni che le sue parole avevano
suscitato.
«Ma prima vorrei che fosse chiaro
quale dev’essere la sola, vera
preoccupazione
del poeta: la chiarezza.
Sì, la chiarezza, perché (parole di
Stendhal:
ma di lui parleremo un’altra volta)
«soltanto la chiarezza può rappresentare
ciò che un uomo sente». S’intende,
chiarezza
sintattica, non solo di senso. E chiarezza
significa disporre le parole in un loro
“ordine naturale”. Significa non piegare
l’ordine sintattico della frase ad
esigenze metriche».
Nessuno parlava. Nemmeno un sussurro.
Nemmeno un mormorio, Ne fu stupito.
Ma che cosa pensavano quei giovani
aspiranti ragionieri? Era difficile che
“avessero
contezza” di quel che stava loro dicendo.
Restavano in silenzio, aspettando che lui
riprendesse a parlare. Lo guardavano. Milioni
di eccezioni, voleva riprendere, se – dice
san Girolamo – anche l’ordine delle parole
è un mistero. Lo pensò ma non lo disse.
«Le convenzioni metriche, gli artifici,
minacciano
la naturalezza (del discorso e della
lingua)
e tendono continuamente a sopraffarla».
Fin là i ragazzi avevano ascoltato in
silenzio,
senza fiatare, affascinati dalle parole e
dal tono
del giovane professore. E quando lui
tacque
per riprendere fiato, e anche forse per
capire
se quello che diceva li stesse
interessando,
i ragazzi non si mossero. Fu lieto della
loro
attenzione e, scendendo dalla cattedra,
riprese
il discorso, guardandoli serio. «Sapete?
A ogni verso si aprono trabocchetti. Il
poeta,
per non caderci, deve vigilare di
continuo,
essere sempre desto e concentrato». Qui
si rese conto che stava parlando più a sé
stesso
che ai ragazzi. Era lui il poeta! Quel
discorso
lo riguardava direttamente: la chiarezza
era un suo cruccio. I ragazzi lo
guardavano
sospesi. «E in questo dover essere chiari
a tutti i costi c’entra l’abilità del
poeta»
precisò rivolto alla classe. «Ma facciamo
qualche esempio, leggendo alcune di quelle
canzonette. Ascoltate:
Credei
ch’al tutto fossero
in
me, sul fior degli anni,
mancati
i dolci affanni
della
mia prima età:
i
dolci affanni, i teneri
moti
del cor profondo,
qualunque
cosa al mondo
grato
il sentir ci fa [1].
Per prima cosa sentiamo il ritmo. Forse
nemmeno
ci rendiamo conto di aver letto una strofetta
metastasiana. Ma il contrasto tra la forma
e il contenuto genera effetti di straordinaria
intensità. Viceversa, se leggiamo:
Qual
masso che dal vertice
di
lunga erta montana,
abbandonato
all’impeto
di
rumorosa frana,
per
lo scheggiato calle
precitando
a valle,
batte
sul fondo e sta… [2]
neanche qui forse vediamo subito lo
stampo, ma
“precipitiamo”, senza volerlo, nella
cantilena.
Non siete d’accordo?» Nessuno osò
rispondere.
«Beh, forse esagero» disse allora «ma fate
voi
la prova, se volete. Capite dov’è la
differenza
di ritmo fra i due testi? Per me è proprio
nella scelta e nell’ordine delle parole, e
fin dal
primo verso, nelle pause. Torniamo
all’esempio:
Credei
ch’al tutto (pausa) fossero (breve pausa,
stavolta per la fine del verso, e
inarcatura al verso
successivo) in me (pausa forte) sul fior degli anni…
ecc.; lo stesso ritmo, con le stesse pause
(quinario, bisillabo, bisillabo,
quinario), si ripete
ai primi due versi della seconda quartina.
Nel secondo caso, invece, per quanto si
voglia
leggere con lentezza e sentimento, quel
primo
verso ha già un’impronta decisa: Qual masso che
(solo qui, a metà verso, interviene una
pausa,
ma forzatamente brevissima, quasi
impercettibile)
dal
vertice (nessuna
inarcatura, perciò pausa lunga,
caduta al secondo verso) di lunga erta montana…
E via di seguito, allo stesso modo. Mi
capite?
Capite quel che sto dicendo?» Nessuno
rispose.
Qualcuno fece “sì” con la testa. «Ma c’è
un terzo
caso. Leggiamo:
Son
luce ed ombra; angelica
farfalla
o verme immondo,
sono
un caduto chèrubo
dannato
a errar sul mondo,
o
un demone che sale,
affaticando
l’ale,
verso
un lontano ciel [3].
L’abilità non manca. Il ritmo è mosso, le
pause
nel distico iniziale sono come nel primo
caso,
considerata l’inarcatura: angelica /farfalla,
c’è la prima di una serie di anafore: son /sono,
c’è il dualismo luce-ombra, farfalla-verme,
c’è il gioco del rovesciamento:
alto-basso-alto;
insomma c’è mestiere, (ma quel chèrubo –
sapete cos’è? un cherubino – alle orecchie
nostre di “moderni” suona brutto. Il
poeta,
non si fosse adattato per rispetto del
metro,
avrebbe scelto un’altra parola?).
I tre poeti
partono dallo schema di una “canzonetta”,
composta di strofette di otto versi di
settenari
in voga nel Settecento. Il primo lo
utilizza
tale e quale rivitalizzandolo nel ritmo,
con
l’agilità delle inarcature e con
l’eleganza,
p. e., di quella ripetizione, i dolci affanni
alla fine del terzo e all’inizio del
quinto verso,
seguito dalla bellissima inarcatura: teneri
moti (i dolci affanni del cuore: la bellezza
dell’espressione – con un tipico enjambement
imparato dal Tasso: aggettivo sospeso
sul sostantivo all’inizio del verso che
segue.
La bellezza, dicevo è così evidente e
viva,
anche nel suono, che ogni altro commento
lo credo superfluo). Il secondo poeta
rinnova
lo schema rinunciando a un verso,
alternando
uno sdrucciolo libero a un piano rimato,
seguiti da un distico a rima baciata e da
un
tronco, accentuando il sincopato un po’
mono
tono (monotono) della strofetta (però
abile:
riesce a farci sentire il rumore di una
frana
che rotola a valle, anche se poi l’effetto
si perde nelle strofe successive): il
risultato
a mio modo di vedere, è un po’
convenzionale
e non l’aiuta partire con una
similitudine, che
dilata, respingendolo a fine strofe, tutto
il senso
del discorso. Quanto al terzo poeta,
ricalca
l’innovazione del secondo, innervandola
con
un abile uso della tecnica, ma la capacità
non offre un risultato degno degli sforzi,
perciò tutto resta un po’ freddo. Insomma,
ragazzi, si vede così la supremazia del
primo
poeta sul secondo e, ovvio, di questi sul
terzo».
Concluse così proprio mentre la campanella
suonava la fine della lezione. Raccolse
i libri sulla cattedra e s’avviò verso la
porta.
«A domani» disse uscendo. Sentì dietro
il brusio della classe, liberata dalla
tensione.
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