PREMESSA A CAMILLO FONTE
Le “petrose” e la
Commedia
«Era un uomo
tormentato», disse il Preside al cronista,
«senza certezze,
e nemmeno speranze, credo io,
se ha potuto far
questo». Intervenne
il fratello: «Ma
era un poeta! Anche se
lo sapevamo in
pochi, Preside. Neanche lei.
Tutto il tempo a
studiare, da ragazzo… Lo ricordo
molto bene. Ore e
ore da solo
a leggere Dante. (Finché
non s’innamorò,
poveretto, della
donna che gli ha rovinato
la vita)». Ma
questo lo disse a voce bassa,
fra sé, come
fosse un inciso che agli altri
non doveva
interessare.
«Da insegnante,
aveva un modo
che incantava i
suoi studenti. Non c’era,
in come insegnava
(questo, Preside, lo sa),
proprio niente di
accademico.
Le sue lezioni –
che qualcuno giudicava
stravaganti –
interessavano tutti. Tutti quelli
che avevano la
fortuna di seguirle.
Aveva un suo
metodo…». «Di che
metodo si
tratta?» lo interruppe il cronista.
Può spiegarsi?»
chiese ancora. Severino
lo guardò, lo
fissò per un attimo negli occhi.
«Certo» disse. Ma
fece passare
qualche attimo
prima di riprendere
a parlare,
rivolto al cronista. «La sua prima
lezione fu
quella, credo, che, una volta,
fece a me per
spiegarmi una teoria
sulla Commedia
(non so dirle come e quando
l’avesse
sviluppata, ma dev’essere partito da lì
per mettere a
punto il suo metodo d’insegnamento).
“No, sai? non ne
ho voglia”, mi disse una mattina
in cui volevo che
venisse al mare.
“Il caldo mi
uccide…» disse. «Non ti va
di sederti?
Voglio dirti
una cosa che ho
scoperto su Dante e la Commedia.
Dovrai dirmi se
la mia interpretazione
ti convince o se
è solo un mio delirio”.
Poi vedendomi
scettico aggiunse: “Ma non sei
obbligato ad
ascoltarmi”.
E dopo un attimo
d’indugio: “E se devi
andare…”. No,
resto, gli dissi, perché sono
curioso. E
sedetti di fronte a lui,
in penombra,
davanti alla finestra dello studio…».
Qui si
interruppe, si rese conto che al cronista
la teoria del
suicida su Dante poteva non interessare.
«Ma forse
l’annoio», gli disse. «Mi scusi.
E, quel che sto
dicendo, ai suoi lettori…».
«No, certo», quello
disse. «Ma… chissà?».
«Però a me
interessa molto. La prego, continui».
Così Severino
riprese con calma
a raccontare di
quel giorno di giugno col fratello.
«Aveva chiuso il
libriccino che leggeva,
le Rime di
Dante nell’edizione della BUR.
Quella grigia, ve
la ricordate?.
Con l’indice fra
le pagine, “Sai?” disse
“L’ammirazione di
Dante per il magistero
formale di Arnaut
Daniel
credo fosse un tormento,
per lui”.
Poi tacque per
qualche secondo, come se aspettasse
da me
un’eccezione, un commento.
Io non chiesi,
non dissi
proprio niente. E
nemmeno fui curioso
di chiedergli
cosa intendesse e perché l’ammirazione
dovesse essere un
tormento. Aspettai,
guardandolo serio,
che riprendesse a parlare,
Aveva sul volto
una luce
di viva
intelligenza, una fremente ansia di dire.
Ma “lo diventò”
volle allora precisare,
come se mi avesse
letto
negli occhi la
muta domanda, “dopo aver
messo a frutto
quel che aveva imparato
dallo studio del
provenzale in quelle canzoni
cosiddette
‘petrose’ (due sono bellissime
sestine, una
doppia, un vero tour de force),
che rappresentano
quanto di meglio aveva scritto
prima della Commedia.
Ma alla luce
posteriore del poema – questo penso –
le considera un
peccato d’orgoglio”.
Parlava
guardandomi negli occhi, ma senza vedermi.
E nemmeno allora io
dissi niente. E non seppi
far altro che
ascoltarlo. “Un peccato letterario”
riprese “il
peccato di un gioco
formale spinto
all’eccesso
e di un parlare,
di un dire ‘aspr’e sottile’
di difficile
comprensione”.
Tacque ancora
come aspettasse un commento,
uno stupore...
“Vuoi dire che
quella è la “selva
oscura”? Oh, fu
lieto della domanda!
“Sì, bravo!”
disse e riprese:
«Perché Selva
è metafora classica, nella poesia latina,
in particolare in
Virgilio –
che per Dante è
autore e maestro, lo sappiamo –
del fare poetico.
E la ‘diritta via’,
la via smarrita è
quella di un contenuto
etico della
poesia.
Un contenuto, non
solo di raffinatezza formale,
ma che permei la
forma.
Manca questo alle
‘petrose’? È là lo scacco?
Fu per fargli
scontare quel peccato
che ‘il miglior
fabbro’ venne messo in Purgatorio
(lo incontriamo,
ricordi? nel canto XXVI:
Ieu sui Arnaut, que plor e vau cantan)?
La Commedia è il riscatto di Dante dallo stesso
peccato?”
Domanda retorica.
Lui quello pensava».
Qui tacque
ancora, Severino, guardando il cronista
che in silenzio e
a capo chino sembrava
riflettere su
quello che aveva appena ascoltato.
«Ma suo fratello
ha lasciato qualcosa di scritto?»
gli chiese «Per
esempio questa piccola lezione
di poesia sulla Commedia?
O su altri
argomenti. O saggi di lettura…
A parte le
poesie, naturalmente, quest’è chiaro».
Non sapeva cosa
dirgli, ma promise
di guardare fra
le carte restate nei cassetti.
Si scambiarono i
telefoni. Il cronista ringraziò.
E promise,
andando via, un articolo senza pregiudizi.
Due giorni dopo,
Severino lo cercò. S’incontrarono
al giornale: gli
portò
i testi di
quattro lezioni che Camillo
aveva trascritto in
poesia. Come fossero racconti.
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