CITTÀ ADDORMENTATA
Avevo precisato, nell’andarmene in città,
io che vivo quasi alla periferia, tramite il fresco
che proviene dal fiume che è una sottospecie
in cui errano più cose insolite che chiarezza,
che non avrei più avuto il suo vuoto riflesso.
La routine di sempre, in fronte, come un letale
numero abbrunente il viso segnato dalla stanchezza
avrebbero disperso anche l’eco dell’acqua,
la metàfora della sua luce fredda, come un antico
salvacondotto, per estrarsi dal flusso.
Pure mi rammento di tante cose. Una siepe operaia
aveva invaso le strade e le finestre stregate chiudevano
alla presenza delle ossa nella città i loro occhi,
qualche luce gradita serbava le sue fiamme, tinte
di rosso, che il vento del fiume serpeggiando portava.
Ora il mio viso si sposa a rimasticare rovine.
So di trovare un bordo ed è come un appello del sangue.
So di pensare a tante cose nell’inverno che rinviene
quando la calce crolla dal muro ed è sotto
il gelo la spoglia primavera di sempre che grida.
Da Una cosa sublime, Einaudi, 1982
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