Domani ricorre l'anniversario della nascita di Attilio (18 novembre 1911). Voglio ricordarlo e segnalarlo a chi ha dimenticato.
DISCENDENDO
IL COLLE
I
A
quest’ora al tramonto se a occidente
il
cielo nuvoloso si piagava e diveniva celeste
a
oriente il campo mietuto e saccheggiato
ardeva
di tanti fuochi: era la città di Roma
nel
tardo autunno e qui il Tasso a occidente
del
mio cammino in Sant’Onofrio e a oriente Gramsci
in
Regina Coeli patirono la bellezza di cieli
similmente
piagati un tale ardere di fuochi
poi
che un altro anno finiva assai
amaramente
della loro vita entrambi
da
reclusione e castità sorrisi mentre
più
giù più giù nell’ombra che infittisce
e
palpita di corpi abbracciati un commercio
prospera
per cui non moriranno i borghi
da
queste alture ancora ocra e rosa
prima
della notte e di un lume di luna
tiepido
come latte e portatore d’insonnia.
II
Splendi
ottone risuona legno poi che
dicembre
ha disperso la nuvolaglia e viene
Natale
tutto il cielo è celeste
chiara
la città come una rosa.
O
pomeriggio trasmutato in sera o baci
nell’illuminarsi
e perdurare scuro
di
vicoli e piazzette, petali
umidi
di una polluzione notturna:
questa
notte sveglia, la rosa
e
le cornamuse dolcemente nasali
che
seguirono il sereno e i suoi
lempi,
lontane. E fu
il
marasma o la sua prova
generale:
doveva accadere qui in un
inverno
corruttore e languido
così
che il sudore improvviso sembrasse naturale.
III
Lo
stesso amaro profumo del sempreverde
e
sapore di fumo in bocca per
sarmenti
bruciati – è il lavoro d’ogni giorno
da
metà gennaio per questi
giardinieri
avventizi, uomini
di
grandi vizi e d’una media miseria,
adulteri
stempiati per cui
i
minorenni s’equivalgono, amati
più
della vita.
Qui
dove ormai, e sempre,
la
bellezza soltanto dà suono
sincero,
metallo che corrusca
non
si consuma alla saliva dei baci.
Ne
riceve ferite discendendo
il
colle inebbriante di sereni lontani –
l’orizzonte
aperto perché le giornate s’allungano –
chi
si credette temprato dai rigori
d’un’infanzia
ostinata
nell’Italia
e nell’Europa che ancora
avvolge
notte e nebbia e stringe gelo delirante d’inverno.
Ma
lascia che al braccio piegato
(piagato)
d’una curva sbianchi
la
facciata d’un ospedale
dove
soffrono bambini, senti
gemere
il sempreverde nel piccolo
falò
terminale: non disperare.
Da Viaggio
d’inverno, Garzanti, 1971
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