lunedì 15 novembre 2021

Lucio Piccolo

 

GUIDA PER SALIRE AL MONTE

 

Così prendi il cammino del monte: quando non

sia giornata che tiri tramontana ai naviganti,

ma dall’opposta banda dove i monti s’oscurano in gola

e sono venendo il tempo le pasque di granato e d’argento

– al cantico d’ogni anno s’avvolge di bianco la crescenza,

trabocca dai recinti, l’acquata nuova ravviva

la conca, l’orizzonte respira – da lì

alito non soverchio di vento di mezzogiorno,

e allato ti sarà e ti farà leggero

compagno che non vedi, presente

per una foglia che rotola o un ramo che oscilla,

e sono i sandali il curvarsi dell’erbe innanzi . . . canna

non avrai né fiasca di zucca per la sete come

al tempo delle figure, dal vento nascono i sogni. Ancora

un indugio tiene l’estate, di dalie, di gravi

campanule troppo accese ai giardini bagnati,

guai se l’aria l’agiti un poco!

e vengono afflati di vane danze – ma

la risacca indolente nelle insenature

cullò già rottami sperduti di mesi,

è questo il tempo, prendi il cammino del monte

e non discordi il passo nella salita al soffio

tacito – se i rami svolta agli arbusti

rassembrano pendenti piume di tortore di beccacce.

Spiazzo dinnanzi e un fonte, e questo è l’imbocco

della salita, scalea montana che poggia

su arcate giganti in muraglia coeva

alla rupe e stipano i vani siepaglie

densissime di sterpi serpigni, rifugio

nell’ore della luce di quanto la notte

ronfa, erra, sfiora – l’acciottolato rurale

fa scivoloso il piede, ché ogni pietra circonda

il muschio ora verde ora arsiccio,

ai margini il muretto a secco sgretola

e sul pietrisco punge il cardo violetto . . . ma guarda

sopra l’altura, è vicina, non la tocchi con mano?

Pure se vi affiorano nuvole a ricci a corimbi

– spume che nel celeste muovono i venti dell'alto –

subito si discosta la vetta, t’incombono sopra le nubi.

Silvestri le prime rampe, quando svolti alla terza

intorno t’è l’aria del monte come non altrove:

un liquore di fiori rupestri, d’antiche piogge e segreti,

e vedi calcare che un giorno immemoriale una stecca

segnò come creta a incavi sottili, a mensole, a nicchie,

e incontri già la capanna dell’eremita:

edicola o cella? senza copertura o riparo

squallida d’inverni, agli schianti

quì che il monte s’interna, di levante o scirocco,

lontano pareva di vimini, di carta –

pesta dipinta – s’asconde o vien fuori secondo

ch’è nuvolo o secco il solitario? L’eremita

chi lo vide mai? E noi pensiamo mattini

boschivi, anime di cortecce, veglie . . . ma così non è.

Forse erano suoi enigmi di schioppo e lanterna,

forse era lui a cercare nella forra angusta

il bulbo che alimenta la notte?

– Solitudine trasparenza d’abisso? –

E le notti, le notti hanno un tarlo rovente

né giova scongiuro, le pietre della capanna

serbano ancora le losanghe scure che lascia

fuggendo il rosso devastatore dal manto . . . e questo

avvenne una volta: nell’ora

che su la città è una coltre in caligini,

e scende, né la ferma spranga o chiavistello,

e posa a ognuno la sabbia del sonno su le palpebre,

da un’intacca della rupe sprizzò la scintilla:

saio barba cappuccio, il fagotto d’orbace e stoppa

fu tutto ruote di fuoco sbocchi di fumo . . . l’ombre

dell’energumeno su le pareti di roccia

come di notturni avvoltoi in turbinio d’ali!

Più delle fiamme paurose. . . tardi dal mucchio

si partirono in volo dintorno maligne

pirauste, lampiri – e dalla pianura

di giù se alcuno vide il bagliore

pensò forse: accende il capraio a conforto

la fiammata, ora che autunno avanza . . .

 

 

Da Plumelia, All’insegna del pesce d’oro, 1979

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