NEL GIORNO DEI MORTI
2 novembre 1991
Nel mese più stanco, nel giorno
dei morti – è già un mese
che manchi – giorno freddo
e assolato arrembante come allora
oltre il crinale dei monti
su strade e campagna sul rame
del bosco e sopra ai tetti
a sciogliere la brina
notturna («è il fiato dei morti»
una voce inconoscibile bisbiglia
«è il fiato perso dei nostri
cari morti: hanno freddo
e il loro fiato gela» una vecchia
in nero che non riconosco
per età o per stanchezza
arrancando curva sulla strada
del cimitero fra sé e sé sussurra).
Forse è quella voce flebile
più del vento fra le piante
a chiarirmi quanta vita e
quanta morte sono state necessarie
ai sentimenti e che fuoco
può perderci tutti o affinare
i nostri sensi nel lento
maturare dei giorni, ma a te
la coscienza (o forse l’anima, se solo
potessimo crederlo) a te parla
scegliendo le parole –
come il corvo il frutto dolce
da beccare fra quelli avvelenati
dalle lunghe piogge acide
d’autunno – le parole spente
dal silenzio che ci divise.
«Se fu solo per il saluto
che si dà a chi parte
per un viaggio in paesi
lontani, se fu solo per questo
che tutti, tutti ci unimmo
in quel mattino assolato
e sereno di ottobre, se il nostro
pianto era giusto e dovuto
per amore, io perché ne sentivo
la colpa come fosse
una cattiva azione ora lasciarti?
perché, padre? dove avevo
sbagliato con te e perso
la confidenza bambina?
il tuo riserbo d’uomo nato
al dovere nell’avara
solitudine di questa terra
senza abbandoni, la mia cupa
adolescenza di protervia
e illusioni: eccoli forse
i motivi che il tempo confuse
ma che sempre un riverbero
lumeggiò nel profondo
della tua silenziosa vicinanza
del tuo sostegno e amore».
Ora i pensieri
sono il metronomo dei passi
lungo la strada polverosa
dove altri camminano
con noi a coppie a gruppi
di tre confabulando sotto il
sole già alto o all’ombra
nel giorno della visita
ai morti a chi ora dorme sonni
insensati e perfetti
e non ricorda più affanni o sogni.
(Inedita)
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