La specie umana come generazioni di foglie. Il tema fu introdotto da Omero (Iliade VI, 145-149, e anche XXI, 462-466), ripreso da Mimnermo e da Virgilio (Eneide, VI, 305-312), più tardi da Dante (Inferno, III, 112-117). Particolare fortuna sembra aver avuto nell’Ottocento, trattato da diversi poeti (Shelley nell’ultima strofe dell’Ode to the West Wind, Lamartine, Leopardi nella sua piccola Imitazione, il russo Tjutčev, Gerard Manley Hopkins), e ad inizio Novecento (Rilke, Trofa e Ungaretti).
Ognuno di questi poeti, nel corso del tempo, ha ripensato l’antico tema a suo modo, introducendo variazioni di tono, ovvero privilegiando, nella similitudine fra gli uomini e le foglie, la caducità o la brevità della loro vita, la loro dispersione, ma anche la rinascita e il rinnovamento.
Degli antichi, ecco il solo Mimnermo, nella versione che ne dà Salvatore Quasimodo nei Lirici greci. Mercoledì e venerdì prossimi, i poeti dell’Ottocento, da Shelley a Hopkins, e Rilke e Ungaretti.
MIMNERMO
Al modo delle foglie che nel tempo
fiorito della primavera nascono
e ai raggi del sole rapide crescono,
noi simili a quelle per un attimo
abbiamo diletto del fiore dell’età
ignorando il bene e il male per dono dei Celesti.
Ma le nere dee ci stanno sempre a fianco,
l’una con il segno della grave vecchiaia
e l’altra della morte. Fulmineo
precipita il frutto di giovinezza,
come la luce d’un giorno sulla terra.
E quando il suo tempo è dileguato
è meglio la morte che la vita.
Traduzione di Salvatore Quasimodo
da Tutte le poesie, Mondadori, 1995
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