lunedì 29 agosto 2011

Massimo Gezzi


MATERIES AETERNA

                                                                              nisi materies aeterna teneret
                                                                                                                         Lucrezio

Mi alleno cosi: imparo a numerare
le ombre che mi passano fra palpebra
e pupilla mentre dormo, e quando mi sveglio
devo solo limitarmi a ripetere
l’identico gesto con i vivi –
se le cose fossero le cose
non potrebbero cambiare di valore
in poco tempo: al muro stamattina una bici
che solo un giorno fa era un mezzo
con due ruote è cavalcata da un fantasma –
se le cose restassero cose per sempre,
se non decidessero di saltare sulle dita,
di smaterializzarsi (una notte di lavaggi
ho impiegato per togliermi dal pollice
1l puzzo dell’aglio) – invece le cornacchie
tossiscono sui coppi,
e non se ne avvedono, e il suono
passa vetri e guarnizioni e salta dentro
una persona, conformandosi
alla storia precisa di nevrosi
di ognuno – se le cose restassero le cose,
se fossero forme coerenti e ripetibili
e non si rovinassero le sagome nel tempo:
ora una stessa carne sarebbe il mio guanciale,
e i chiodi sul muro racconterebbero
la storia del mio corpo,
ficcàti bene dentro da bambino,
lasciati a metà quando sai
che poi col martello non riesci a sradicarli,
se non resta uno spazio.
                                            Niente più capelli
nello scarico del bagno, il bolo scende giù
nella rete fognaria, si trasforma in poltiglia
che nutre non so cosa. Avrei desiderato
un tappeto di capelli, per dormire: stenderlo per terra,
rigirarmi quattro volte su me stesso
fino a sentire la tensione delle spire dipendere
da un minimo scatto della testa. Invece,
i capelli sono andati a finire
nei tombini, sono persi come persa
è la foglia che si sbriciola e diventa
frantume che non ricorda più nulla
della gemma.
                              I cancelli dell’università
diventano più freddi con il freddo,
ogni sera fanno il solito
strido di chiusura quando viene
il custode a inchiavarli – per anni
resteranno ancora lì, fino a che
in un giorno come tanti un altro uomo
batterà con il martello sui cardini
per estrarli dal cemento – la ruggine
che rode la vernice farà un’ombra
sulla pietra – saranno trasportati
su un furgone, abbandonati in un deposito
o buttati in un fosso – dove rimarranno
in incognito cancelli, appiglio
di convolvoli, pettine di erbe: nessuno saprà
che aprendosi sui perni gemevano
di attriti - le lumache passeranno
tra le sbarre agilmente.

Da L’attimo dopo, Luca Sossella Editore, 2009

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