TRE
SONETTI
*
Muoio, e i
tormenti che mi dà l’assenza
col
martirio dei giorni e delle notti
son tali e
tanti che non so mai se senza
scampo
peggioro o se riprendo fiato.
Un primo
affanno da mille è tallonato
pensando di
giovarmi faccio il mio danno,
da un
infinito moto di pene trainato
in un
turbine mi sento, né so dire altro.
Sono
Atteone dai cani dilaniato!
E
dell’anima il lume è così alterato
che chi
dovrebbe farmi vivere mi uccide:
due dee ci
hanno tramato la sorte
e a casi
diversi comune è la morte:
io perché
non la vedo, e lui la vide.
*
Tu che
raggi, mio Sole, dai tuoi occhi
nei miei, e
per troppa luce luce gli levi,
io non vedo
che te e così fiera
è l’anima
che ama solo nei cieli.
Ogni altro
amore un inferno mi pare
furioso, di
morte e orrore, e mi ritraggo
liberamente
via libera lasciando
a chi
volendo il meglio fa più male.
Spesso il
piacere è l’amo dell’amore,
ma in piu
io sento una piu viva forza
che mi
farebbe comunque amare quel Sole:
e questa
forza è in te, la cui possente
bellezza
senza pari, benché assente,
ha ucciso
questo amante senza pari.
*
Mentre
nell’aria un’altra aria respiro
e il
desiderio a gara con il fuoco
accendo e
contro l’acqua le acque gonfio del mio
piacere, a
terra un molesto martirio
mettendo:
quest’aria mi rianima, mi tenta
il
desiderio, passo i piaceri in rassegna
avido –
assiduo il mio martirio non allenta
la presa, e
l’ultima è la pena che più impegna.
Così
finisco in un raro patema,
con le
forze contrarie tutte contro
di me, che
muoio in questa doglia estrema.
Ecco come
si sparge la vita in pieno
abbandono,
ogni parte del mondo strappa
la sua
parte, e quel che resta per noi è il meno.
Traduzione
di Gianfranco Palmery
Da
Versi d’amore e di morte, Il Labirinto, 2007
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