Ci sono libri nei quali ci si perde, nei quali si entra per perdersi, perché non si vuole più uscirne. Sono quelli che indagano l’anima o il mistero di sé.
Di ognuno di questi libri offro solo l’incipit, ovvero il primo, o i primi paragrafi; di qualcuno, l’ultimo o gli ultimi, ovvero l’explicit. Spero, per voi che leggerete, che servano d’invito a perdervi in essi.
LA MORTE DI VIRGILIO
Azzurre
e leggere, mosse da un lieve, appena percepibile vento contrario, le onde
dell’Adriatico erano corse incontro alla squadra imperiale, quando essa,
avvicinandosi lentamente alle piatte colline della costa calabra, veleggiava
verso il porto di Brindisi, ed ora che la solitudine del mare, così piena di
sole e pur così piena di morte, si mutava nella serena allegrezza dell’opera
umana ed i flutti, dolcemente irraggiati dalla vicinanza di uomini e case, si
popolavano di ogni specie di navi, di quelle che ugualmente tendevano al porto
e di altre che ne erano uscite, ora che le barche dalle vele rossastre già
d’ogni parte uscivano per la pesca serale abbandonando i piccoli moli dei molti
paesi e villaggi lungo la riva lambita dalle candide onde, ecco che l’acqua si
era fatta come uno specchio; e in alto si era dischiusa la perlacea conchiglia
del cielo, scendeva la sera, e si sentiva l’odore del fuoco di legna dei
focolari, ogni qual volta le voci della vita, un picchiar di martello o un
richiamo, giungevano portati dal vento.
[…]
Il brusio continuava, risonando dalla
mescolanza della luce con l’oscurità, scosse entrambe dal suono incipiente,
perché soltanto ora quel suono ebbe inizio e la musica era più che canto, più che
tocco, più che nota, più che voce perché era tutto questo ad un tempo e
prorompeva dal nulla e dal tutto come intesa più alta di ogni intendimento,
come significato, più alto di ogni comprensione, come la pura parola che era,
sublime, al di là di ogni comunicazione e di ogni significato, definitiva e
incipiente, possente ed imperiosa, terrificante e consolatrice, soave e
tonante, la parola della distinzione, la parola del giuramento, la pura parola
che lo investì fragorosa, sempre più piena, sempre più forte, tanto che nulla
più poté resisterle e l’universo svanì dinanzi alla parola, si dissolse e si
vanificò nella parola, e tuttavia era ancor contenuto nella parola, custodito
in essa, annientato, e creato ancora una volta e per sempre, perché nulla era andato
perduto, perché la fine si univa col principio, rigenerato, rigenerante; la
parola si librava al di sopra del tutto, si librava al di sopra del nulla, al
di là dell’esprimibile e dell’inesprimibile; ed egli, travolto e al tempo
stesso avvolto dal fragore della parola, si librava con lei; tuttavia, quanto
più quel fragore lo avvolgeva, quanto più egli penetrava nel suono fluttuante
che lo penetrava, tanto più irraggiungibile e tanto più grande, tanto più grave
e tanto più evanescente si fece la parola, un mare sospeso, un fuoco sospeso,
con la pesantezza del mare, con la leggerezza del mare, e tuttavia sempre
parola: egli non poteva ricordarla, non doveva ricordarla; essa era per lui
incomprensibilmente ineffabile, perché era al di là del linguaggio.
Traduzione
di Aurelio Ciacchi
Da
La morte di Virgilio, Feltrinelli, 1993
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