Ci sono libri nei quali ci si perde, nei quali si entra per perdersi, perché non si vuole più uscirne. Sono quelli che indagano l’anima o il mistero di sé.
Di ognuno di questi libri offro solo l’incipit, ovvero il primo, o i primi paragrafi; di qualcuno, l’ultimo o gli ultimi, ovvero l’explicit. Spero, per voi che leggerete, che servano d’invito a perdervi in essi.
C’era
un uomo chiamato Torsten Bergman, esile e bianco di capelli. Era piastrellista,
nato nel 1917. E quindi quel grigio mattino di novembre del 1982 on cui questa
storia ha inizio, a Uppsala, aveva già sessantacinque anni. Dormiva in un letto
che un tempo era stato doppio e matrimoniale. Adesso era singolo, e con lenzuola
mal lavate. Vecchi giornali e qualche bottiglia vuota giacevano sparsi qua e là
sul pavimento, in un angolo c’era ancora il vecchio tappeto nero pieno di peli
dove usava dormire il cane.
La giornata incominciò nell’unico modo
possibile: l’erba già morsa dalla prima gelata, il cane sparito da giorni,
tutto vago e incerto, la sua vita più di ogni altra cosa. Il guardino in
disordine, l’aspetto dissestato. La casa era vecchia, di un legno che un tempo
era stato verde, diventato ora di un azzurro quasi grigio e scrostato. Stanchi
rami di vecchi meli pesanti pendevano minacciosi sopra la veranda marcia. Il
giardino era un affastellato, confuso monumento a tutte le opere della sua
vita. E qualcuno avrebbe forse detto: ai fallimenti.
Tradizione
di Carmen Giorgetti Cima
Da
Il pomeriggio di un piastrellista, Iperborea 1992
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