lunedì 21 novembre 2011

Lucio Piccolo


GUIDA PER SALIRE AL MONTE

Così prendi il cammino del monte: quando non
sia giornata che tiri tramontana ai naviganti,
ma dall’opposta banda dove i monti s’oscurano in gola
e sono venendo il tempo le pasque di granato e d’argento
al cantico d’ogni anno s’avvolge di bianco la crescenza,
trabocca dai recinti, l’acquata nuova ravviva
la conca, l’orizzonte respira – da lì
alito non soverchio di vento di mezzogiorno,
e allato ti sarà e ti farà leggero
compagno che non vedi, presente
per una foglia che rotola o un ramo che oscilla,
e sono i sandali il curvarsi dell’erbe innanzi . . . canna
non avrai né fiasca di zucca per la sete come
al tempo delle figure, dal vento nascono i sogni. Ancora
un indugio tiene l’estate, di dalie, di gravi
campanule troppo accese ai giardini bagnati,
guai se l’aria l’agiti un poco!
e vengono afflati di vane danze – ma
la risacca indolente nelle insenature
cullò già rottami sperduti di mesi,
è questo il tempo, prendi il cammino del monte
e non discordi il passo nella salita al soffio
tacito – se i rami svolta agli arbusti
rassembrano pendenti piume di tortore di beccacce.
Spiazzo dinnanzi e un fonte, e questo è l’imbocco
della salita, scalea montana che poggia
su arcate giganti in muraglia coeva
alla rupe e stipano i vani siepaglie
densissime di sterpi serpigni, rifugio
nell’ore della luce di quanto la notte
ronfa, erra, sfiora – l’acciottolato rurale
fa scivoloso il piede, ché ogni pietra circonda
il muschio ora verde ora arsiccio,
ai margini il muretto a secco sgretola
e sul pietrisco punge il cardo violetto . . . ma guarda
sopra l’altura, è vicina, non la tocchi con mano?
Pure se vi affiorano nuvole a ricci a corimbi
spume che nel celeste muovono i venti dell'alto –
subito si discosta la vetta, t’incombono sopra le nubi.
Silvestri le prime rampe, quando svolti alla terza
intorno t’è l’aria del monte come non altrove:
un liquore di fiori rupestri, d’antiche piogge e segreti,
e vedi calcare che un giorno immemoriale una stecca
segnò come creta a incavi sottili, a mensole, a nicchie,
e incontri già la capanna dell’eremita:
edicola o cella? senza copertura o riparo
squallida d’inverni, agli schianti
quì che il monte s’interna, di levante o scirocco,
lontano pareva di vimini, di carta –
pesta dipinta – s’asconde o vien fuori secondo
ch’è nuvolo o secco il solitario? L’eremita
chi lo vide mai? E noi pensiamo mattini
boschivi, anime di cortecce, veglie . . . ma così non è.
Forse erano suoi enigmi di schioppo e lanterna,
forse era lui a cercare nella forra angusta
il bulbo che alimenta la notte?
Solitudine trasparenza d’abisso? –
E le notti, le notti hanno un tarlo rovente
né giova scongiuro, le pietre della capanna
serbano ancora le losanghe scure che lascia
fuggendo il rosso devastatore dal manto . . . e questo
avvenne una volta: nell’ora
che su la città è una coltre in caligini,
e scende, né la ferma spranga o chiavistello,
e posa a ognuno la sabbia del sonno su le palpebre,
da un’intacca della rupe sprizzò la scintilla:
saio barba cappuccio, il fagotto d’orbace e stoppa
fu tutto ruote di fuoco sbocchi di fumo . . . l’ombre
dell’energumeno su le pareti di roccia
come di notturni avvoltoi in turbinio d’ali!
Più delle fiamme paurose. . . tardi dal mucchio
si partirono in volo dintorno maligne
pirauste, lampiri – e dalla pianura
di giù se alcuno vide il bagliore
pensò forse: accende il capraio a conforto
la fiammata, ora che autunno avanza . . .


Da Plumelia, All’insegna del pesce d’oro, 1979

4 commenti:

  1. che grande, memorabile poesia!

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  2. vaneggiamenti di compiaciuto narcisismo verbale e a tratti verboso.

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  3. caro anonimo odierno, devi aver letto male o ti sei svegliato storto... altro non potrei dire. prova a rileggere o motiva meglio il tuo dissenso

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