lunedì 27 dicembre 2021

Francesco Dalessandro

 

DALL’ESILIO

                                                      Tristissima noctis imago

                                                                         Ovidio, Tristia, I,3,1

 

Precipita nel vuoto il nuovo

mondo come

già il vecchio con me relegato

qui senza amore e stelle

in questo

gelido inverno (gelido

averno di miniere

e cave o fossi) quando la notte

svuota le strade di parole

e di sguardi: occhi muti

nella tenebra di atre dimore

dove i morti sono

la solitudine dei vivi

e l’esilio, senza chi mi cinga

le spalle nude,

è lo spettro degli anni

avvenire: sono muti

anche i versi che il respiro

porge al fuoco e che dal

ciglio del precipizio

osservo nel vuoto che li accoglie

 

«Anche le anime sono di sasso

qui o di gelido vetro,

il respiro vi scrive affannate  

parole morte…»

                          inizia

così l’ultima triste lettera

con la quale speravo di pesare

la compassione di un

dio lontano e indifferente

ma che non finirò

perché sono stanco di scrivere

le mie delusioni e

aspettare notizie che so

improbabili: nessuno

risponde mai (solo tu

insistito rimorso)

e le speranze sono cenere

sparsa sui viali

che amavo e dove ancora

passeggiano amici dimentichi

di me

e a cui basta una nube

sul Palatino per tremare

e temere che il dio

che vi abita fulmini dall’alto,

mentre qui sulle sponde

nere la neve è come

il sogno

e dipinge sulla rena

dove macina la ruota

del dolore

 

Perché credevo

all’impensabile fiore del

tuo amore

come al mondo che perdevo

e vedevo tra i flutti

irati affondare e sparire

come il remo

strappato alle mani?

 

Perché credevo al ritorno?

 

Non era che il sogno

di te che venivi a cercarmi

come al tempo

della lontana giovinezza

quando ti porgevi

alla bocca alle dita

sapienti e alla più

dolce morte era il tuo

saluto il sorriso che dal buio

voleva consolarmi

era l’immagine

viva di te che fioriva nel

sogno e voleva che la mente

l’accogliesse

a far luce a liberarsi

sì era-

no i soffi della vana

speranza era il vento

che fischia

e frusta la notte senza volto,

era ciò che avevo lasciato

alle spalle quando venne

la marea e la nave

uscì dal porto,

era come il sonno

perduto e mai più ritrovato

sì era

il danno che mi aveva

perso e su queste rive

ancora mi dona

derelizione e affanno

e fra poco la morte

era l’ombra del tempo finito

la foglia caduta e

marcita nell’acqua

era la notte chiara

o forse la notte sul mare

sereno, il silenzio

che apriva la visione

sul delta del fiume sul gelo

che lo stringeva,

era solo la tenebra

nuova dell’anima l’ora

peggiore per specchiarsi

nelle parole e piangere

 

ma tu

non lo sapevi non avresti 

potuto immaginare

il buio il silenzio l’insonnia

il vento che nega

perfino la preghiera

e spinge sabbia

e furia contro la porta

e strappa

il calendario dei giorni che mi restano

e affastella ricordi e rimpianti

e come fosse cera

che si scioglie come fosse

schiuma quest’era pallida

svanisce

a dispetto del dio che tutto

governa e tutto esige

mentre sui versi nevica    

 

(inedita)

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