DALL’ESILIO
Precipita nel
vuoto il nuovo
mondo come
già il vecchio con
me relegato
qui senza amore e
stelle
in questo
gelido inverno (gelido
averno di
miniere
e cave o fossi) quando la notte
svuota le strade
di parole
e di sguardi: occhi
muti
nella tenebra di
atre dimore
dove i morti sono
la solitudine dei
vivi
e l’esilio, senza
chi mi cinga
le spalle nude,
è lo spettro
degli anni
avvenire: sono muti
anche i versi che
il respiro
porge al fuoco e che
dal
ciglio del
precipizio
osservo nel vuoto
che li accoglie
«Anche le
anime sono di sasso
qui o di gelido
vetro,
il respiro vi
scrive affannate
parole morte…»
inizia
così l’ultima
triste lettera
con la quale
speravo di pesare
la compassione di
un
dio lontano e
indifferente
ma che non finirò
perché sono
stanco di scrivere
le mie delusioni
e
aspettare notizie
che so
improbabili:
nessuno
risponde mai (solo
tu
insistito
rimorso)
e le speranze
sono cenere
sparsa sui viali
che amavo e dove
ancora
passeggiano amici
dimentichi
di me
e a cui basta una
nube
sul Palatino per
tremare
e temere che il dio
che vi abita fulmini
dall’alto,
mentre qui sulle
sponde
nere la neve è
come
il sogno
e dipinge sulla
rena
dove macina la
ruota
del dolore
Perché credevo
all’impensabile
fiore del
tuo amore
come al mondo che
perdevo
e vedevo tra i
flutti
irati affondare e
sparire
come il remo
strappato alle
mani?
Perché credevo al
ritorno?
Non era che il
sogno
di te che venivi
a cercarmi
come al tempo
della lontana
giovinezza
quando ti porgevi
alla bocca alle
dita
sapienti e alla
più
dolce morte era
il tuo
saluto il sorriso
che dal buio
voleva consolarmi
era l’immagine
viva di te che
fioriva nel
sogno e voleva
che la mente
l’accogliesse
a far luce a
liberarsi
sì era-
no i soffi della
vana
speranza era il
vento
che fischia
e frusta la notte
senza volto,
era ciò che avevo
lasciato
alle spalle
quando venne
la marea e la
nave
uscì dal porto,
era come il sonno
perduto e mai più
ritrovato
sì era
il danno che mi
aveva
perso e su queste
rive
ancora mi dona
derelizione e
affanno
e fra poco la
morte
era l’ombra del
tempo finito
la foglia caduta e
marcita
nell’acqua
era la notte
chiara
o forse la notte
sul mare
sereno, il
silenzio
che apriva la
visione
sul delta del fiume
sul gelo
che lo stringeva,
era solo la
tenebra
nuova dell’anima l’ora
peggiore per
specchiarsi
nelle parole e
piangere
ma tu
non lo sapevi non avresti
potuto immaginare
il buio il
silenzio l’insonnia
il vento che nega
perfino la
preghiera
e spinge sabbia
e furia contro la
porta
e strappa
il calendario dei
giorni che mi restano
e affastella
ricordi e rimpianti
e come fosse cera
che si scioglie come
fosse
schiuma quest’era
pallida
svanisce
a dispetto del
dio che tutto
governa e tutto esige
mentre sui versi
nevica
Nessun commento:
Posta un commento