mercoledì 8 dicembre 2021

Pere Gimferrer

 APPARIZIONI


II

 

Se il cielo grida e senti che ti chiama

con un grido d’abisso, se ti attira

in alto, nel profondo, dov’è più oscura

la chioma di neve degli astri o il gelo

a squame della notte, o se tu stesso

gridi ancora più forte e non ti stanchi

d’ascoltare la tua voce, sgradevole

come all’udito debole di un sordo,

o insidiosa e nuda come l’acqua

ferita dai bagliori della falce lunare;                                    

se ti chiamano al centro di te stesso

e in quel chiamarti trovi un centro;

se, nodo di luce, appari a te stesso;

se interiore è il richiamo, guardando

in te vedrai il sogno che ho sognato

stanotte? Ma vedere non è la parola.

Non lo vedevo: ero io stesso il sogno.

Non è che mi vedessi, ma era essere

qualcosa che esisteva e che ero io.

Perché il tema delle apparizioni

è il tema dell’io. Però in quel caso

non vedevo una concreta identità:

non m’appariva alcuna immagine.

Non c’era sdoppiamento, né sguardo.

Era la vita in negativo, stato nullo,

il silenzio del fiume disseccato,

la chiarità del cielo che spoglio d’azzurro

è sempre cielo: un fulgore invisibile,

sentito come vuoto di visibilità.

Come il letto di un fiume: terra, pietra,

quiete di devastata aridità,

ramo, verde rancore che è fuggito

dal mondo vegetale, umidità

bevute dal deserto. Cambia la luce

e, guarda, tutto è roccia, polverio

famelico: per questo esiste l’acqua.

È un’assenza, violenta come il sole,

pietrificata, che non scorre, ferro

incrostato d’immobilità, acqua

libera d’acqua che pesa nel letto

del fiume, o il rumore dell’acqua

che non scorre in questo fiume secco.


Traduzione di Francesco Dalessandro

 

 

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