APPARIZIONI
II
Se il cielo grida e
senti che ti chiama
con un grido d’abisso,
se ti attira
in alto, nel profondo,
dov’è più oscura
la chioma di neve
degli astri o il gelo
a squame della notte,
o se tu stesso
gridi ancora più forte
e non ti stanchi
d’ascoltare la tua
voce, sgradevole
come all’udito debole
di un sordo,
o insidiosa e nuda
come l’acqua
ferita dai bagliori
della falce lunare;
se ti chiamano al
centro di te stesso
e in quel chiamarti
trovi un centro;
se, nodo di luce,
appari a te stesso;
se interiore è il
richiamo, guardando
in te vedrai il sogno
che ho sognato
stanotte? Ma vedere
non è la parola.
Non lo vedevo: ero io
stesso il sogno.
Non è che mi vedessi,
ma era essere
qualcosa che esisteva
e che ero io.
Perché il tema delle
apparizioni
è il tema dell’io.
Però in quel caso
non vedevo una
concreta identità:
non m’appariva alcuna
immagine.
Non c’era
sdoppiamento, né sguardo.
Era la vita in
negativo, stato nullo,
il silenzio del fiume
disseccato,
la chiarità del cielo
che spoglio d’azzurro
è sempre cielo: un
fulgore invisibile,
sentito come vuoto di
visibilità.
Come il letto di un
fiume: terra, pietra,
quiete di devastata
aridità,
ramo, verde rancore
che è fuggito
dal mondo vegetale,
umidità
bevute dal deserto.
Cambia la luce
e, guarda, tutto è
roccia, polverio
famelico: per questo
esiste l’acqua.
È un’assenza, violenta
come il sole,
pietrificata, che non
scorre, ferro
incrostato
d’immobilità, acqua
libera d’acqua che
pesa nel letto
del fiume, o il rumore
dell’acqua
che non scorre in
questo fiume secco.
Traduzione di Francesco Dalessandro
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