APPARIZIONI
VII
Un tubare di colomba,
un volo sull’acqua,
bianco volo di tunica
invisibile,
e voci – «Ascolta!
Cosa guardavi?
Dove vai?» –.
Un’aquila in un
cielo
compatto come il
porfido o la serenità.
«Allora? Che vuoi
fare? Dài, vieni!»
Non mi pesa
questo peso d’erba e
fango, di tralci,
vendemmia calda e nera
del campo assolato,
sedimenti di luce,
come un bicchiere
da cui si versi un
vino rosso troppo forte.
Non pesa il peso del
mondo nello sguardo
né brusio di voci
quando sui balconi
gocciala il fuoco del
crepuscolo. Occhi
teneri, iris e narciso
in una sala vuota,
in uno specchio
offuscato da tempo.
Voci che risuonano in
strada, negli orti,
nei solchi del campo
dove le piogge
d’aprile lasciano
acque addormentate.
Voci pure, inquiete,
ansietà d’aria tiepida
sotto sciami di luce
dal cielo primaverile,
azzurro intenso che
uccide, bianco freddo che istilla
morte, come acqua di
lillà nel sogno.
Voci in fondo al
ricordo – «Su, avvicinati.» –
che di notte ci fanno
aprire gli occhi
per vedere un teatro
di neve disciolta,
o che, per strada,
fanno alzare il capo
per guardare fulgori.
Perché nell’aria
c’è un mormorio di
dèi. Il fruscio chiaro
di foglie d’acqua e di
rose sfogliate,
corpi bianchi, seni e
ventri, il sospiro
d’un letto d’amore,
bianco di nubi, vento
di colombe, un pigolio
di luce nei saloni
e sulle vetrate. Un
dio, forse più forte,
col tridente fiammeggiante
del crepuscolo,
romperà il vetro della
balaustrata
aprendo il notturno
spettacolo dei giardini
e della villa alla
livida paura del tempo.
Non ci saranno fuori e
dentro: solo
paura e agitazione in
uno specchio,
stanze deserte che
vedono il loro timore
nel timore del
giardino divoratore.
Voracità e panico:
quando il dentro
e il fuori si
osservano, in uno spazio
abolito, perché
pensato a distanza,
perché ora lo vedremo
nel riflesso.
Deprederò il giardino?
E, depredato,
il giardino deprederà
la casa? Unica legge
in un mondo d’immagini
è la legge
dei riflessi: guardare
è divorare,
ed essere guardato
essere divorato.
Costringiti, guardando
il tuo riflesso,
a divorarti, con la
fame insaziata
dell’immagine che
divora l’immagine.
A te, per dire «Io
sono», per esistere,
non occorre vedere la
tua immagine
negli occhi? E un
riflesso ti divora.
Traduzione di Francesco Dalessandro
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