APPARIZIONI
VI
Parlare del fulgore
senza centro,
del nostro centro.
Anello di Saturno,
accerchia ciò che
siamo: sbuffo di fumo e gas
compresso e dilatato,
la pressione
dell’aria, nerume
viola di vapori, l’affanno
di contorni soffocati
dalla nebbia,
pietre angolari,
stagni bianchi di schiuma,
acqua fangosa, torbida
e sulfurea,
varchi in un cielo
basso e tetro,
nuvoli di fumo di una
pentola bollente,
come un vaso nel forno
o un ventre
a metà digestione,
candore spogliato
da labbra dolci, fuoco
di zucchero candito
sulla pelle, fuoco d’aria
fumante
che consuma il
colorito nocciola
del corpo, tiepido e
occulto come fanali
d’acqua.
Alzarsi, di notte, e vedere
la folgore bianca e
rossa, cenerina
e azzurra, che urlando
spopola le strade,
che percuote la città
disfatta, spaventata
e livida, sciabolata
che incendia le piazze,
lo sguardo della
folgore nella luce
violetta dei portici,
l’oro della folgore
che spoglia e veste i
palazzi di velluto,
colonna di luce in un
tempio di lecci
e folgori.
Niente è torbido. Il mondo
è più nitido se la
notte dai vetri del balcone
dissolve il vapore, la
nebbia che ci abitua
a vivere in essa,
filamento fibroso
dell’essere sensibile.
Non è il chiarore
il sentimento che ci
domina: viviamo
rinfrescati da uno
scampanio d’acqua,
bruciati come la seta
ferita dagli spilli,
sparsi come l’ordito
azzurro dell’inverno,
crepuscoli di vetro,
emulsione di lastre
di fulgore convulso,
luce di laboratorio
nera di sole e neve
nella memoria.
Ricorderemo questo,
della vita: il freddo
che faceva, le dita
gelate, con un suono
liquido di campanelli,
in un giorno
di neve, il gusto di
stracci e salamoia
di un sesso oscuro in
fondo a un magazzino,
le cosce nude come il
salice notturno
e il dolce di un
ventre di spuma;
o forse neanche
questo. L’estate
ci sprona con ferri e
frecce, con rossori
che cancellano il
vetro della vista
temporale. Una notte
di cemento
e di platani pioventi
nelle tenebre:
il passato che scuote
un polline d’ombre,
brusio d’alberi e
ricordi sussurrati,
navi perdute,
l’oriente, la voce di paesi
come bagliori d’onde.
Così il ricordo
e il chiarore senza
centro: non la luce
sentita, ma un peso di
luce e d’acqua
nell’anima. Cosa
palpita e parla
d’un desiderio fatto
di mandorli,
della gioventù vestita
d’alghe, della rosa
nera dell’adolescenza?
Cosa parla
in modo da farci dire
«Sono questo»?
Chi grida, chi ci
conosce? Quale mormorio,
più pallido della
pelle nella febbre
del piacere, più
segreto del gioiello
nello scrigno? Quale
notturno suonatore
davanti a un cielo di
lacca e rumori?
Chi sa il nome della
festa incendiata
da quell’amore
passato, o di ciò che volevamo
diventare, cosa
lacera, morta, svilita,
ma che ancora fa male?
Chi pronuncia
il nostro nome? Senza
freddo né paura,
davanti a un cielo
stellato attendiamo
la morte come un’esplosione
di luce
accecante o un’estate
di violento
splendore, mentre uno
scroscio sparge
il silenzio del
paradiso.
Traduzione di Francesco Dalessandro
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