mercoledì 15 dicembre 2021

Pere Gimferrer

APPARIZIONI 


V

 

Il centro non conosce costrizioni:

è una fiammata davanti agli occhi,

un teso spazio bianco. Non abbaglia:

come il calore della brace che in mano

arde senza far male, come lo spirito del fuoco

sotto la cenere violacea del cielo.

Con gli occhi abituati ad essa, l’oscurità

è frescura di foglie, inverno di giardini:

il palmo d’una mano umida e vegetale

che ci fa da soffitto e da riparo,

silenzio di nuda pietra fatta splendore.

Tutto diventa luce: l’aria palpita

di lontani falò che rifrangono lampi.

Luce solida: calce, diamante e roccia.

Luce liquida: sabbia e sale sciolto.

Luce di zolfo: crepitio di fiamme,

nel ricordo. Rotazione del bianco

nella luce senza centro, perché il bianco

è il cuore del candore della luce.

Gli occhi bevono fuoco, cibo incandescente

che nutre il senso e che sa di cartone

bruciato, di stoppa e di fuliggine,

di terracotta, panni umidi, tende strinate,

di pietra e di niente, come l’aspro e scuro

pasto dei morti che bevono ombra.

Quelle gole vuote non smettono mai

di tracannare ombra, come un vino rosso

e denso di viti selvatiche, trangugiando

il succo torbido e nero dell’inesistenza,

divorando crude spezie piccanti, rottami

del tempo, brandelli d’iris e gelsomino,

pelle umana esposta all’aria, croste e bucce

che sanno di segatura, bocconi di carta

secca: i morti nutriti di soda e d’umori

notturni.

                  Divoreremo solo oscurità?

Solo buio nel buio? A noi, da vivi

non conviene altro cibo, e la bocca

ormai forse gradisce solo quello,

solo ombra per una bocca d’ombra

senza maschera e senza il condimento

stomachevole e osceno che vollero darci

e non chiedemmo. I sensi e il cuore sanno

che vogliamo solo gustare l’ombra.

In quale spazio mentale, dove vivono

i corpi degli amanti? Si congiungono

irrequieti, digrignando i denti, sbuffando

e nitrendo come cavalli in calore,

urlando o parlando a bassa voce,

ma sordi ciechi e muti; dai loro corpi

scaturiscono umori in un fluire

che non è più del mondo materiale

né della mente: quello che ci sfugge,

come l’ira o il languore, salato, denso,

fulgido, fumante come sterco fetido

che stordisce, non sono l’alcova

né vista né vissuta, quegli aspi, un respiro

da bocca a bocca, corpo che tormenta

un corpo, anche e braccia agitantesi

come un’anatra pazza che batta le ali

in un letto d’acqua e lenzuola, l’afrore,

la parola volgare, un rumore gutturale,

e la parola tenera, petalo offerto alla notte

conquistata dai corpi:

                                         tutto quello

che ci esalta e ci spoglia, che ci porta

lontano, in un deserto stellare,

in un campo di luce arida e fredda,

che ci fa sudare e gridare, che brucia

l’erba nera del pube e la peluria morbida

dell’ascella dal gusto dolce e forte,

che brucia i seni in un trionfo solare;

tutto questo, e una luce così forte

che non si può vederla, poiché siamo

noi stessi quella luce, è un gusto d'ombra,

l’assoluto che ci si offre, la fusione

con il pallido esaurirsi della notte.

 

Un chiarore purificato e dolce,

il palato asciutto e queste labbra

ancora umide di fiori e di saliva,

la stanza vista di traverso, girando il capo,

tutto è irreale, come se svegliandoci,

all’alba, scoprissimo ch’è un sogno:

qualcosa abbiamo visto, anzi, noi siamo

quel che abbiamo sentito, perché vedere,

sentire, e essere sono solo un anelito,

un suono fioco e lento di pioggia,

la pace dopo il grido, la luce giallina,

melma del sogno, neve sciolta

nel bianco profondo degli occhi,

un albeggiare sordo che è presagio

d’un vasto cielo opaco di luce smorta,

gusto d’ombra del ricordo, o nostalgia

per qualcosa di durevole, che resista

come polvere e roccia, come il fuoco

che vive solo quando è un fiammeggiare

vibrante e cieco, ardente nel biancore

vuoto del mondo. Senza costrizioni,

senza clamore, senza luce né colore,

né chiarità né buio: un bianco neutro

e puro, la bevanda degli dèi e dei morti.

E questo bianco è il cibo degli amanti:

la dolcezza dell’ombra che ci sporge

su un invisibile assoluto, ma visibile

all’anima, che ci scaglia nel vasto,

innevato e devastato campo di Venere,

giardino siderale, che sa di melagrana

e di tenera pesca, e sa dell’ombra

da cui nasce la vita. E noi sentiamo

tremare lo splendore del bianco

del passato profondo che fummo

e ancora ruota al fondo: il nostro centro,

un cielo solitario e luminoso.


Traduzione di Francesco Dalessandro

 

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