APPARIZIONI
IV
La sensazione dello
spazio esterno,
di quel ch’è fuori
dallo spazio in cui muoviamo
il nostro corpo e
fuori dallo spazio
che ci racchiude. Non
il vuoto del cielo
che riempie la memoria
se chiudiamo
gli occhi né un’assenza
impossibile di spazio,
con un vagare di corpi
senza corpo
nel vasto vuoto. Non
la mappa del nulla
né l’inutile lavagna
d’una notte farinosa.
Non un vuoto mentale,
pioggia lenta,
silenziosa nel buio,
che ci addolcisce l’anima
inzuppata dal freddo e
dai ricordi nebbiosi
d’un giardino morto,
del cammino
dell’adolescenza, o
d’ogni luogo che amore
o desiderio rivestono
col bianco spettro
dello splendore. Non
vuoto d’altri tempi
in uno spazio vuoto,
né l’ombra dello spazio
o le sue immagini. Lo
spazio esterno
non ha centro.
Vivendo, a volte si sente
una ruota poderosa, un
frastuono, un ansimare
di stantuffi, la notte
che respira ferro e fumo,
la tensione degli assi
che ci legano al nucleo,
radice dell’esistere.
Come potremmo vivere
ignorando d’avere
anche noi un centro?
È il regalo del sogno:
minaccioso e raggiante,
come una perla nera,
che alla vista è divina,
ma toccandola uccide.
Il tatto non esiste,
nel sogno, e l’occhio
forse, nel buio,
non vede niente. Il
lucore della perla
è un fuoco invisibile
al centro del mondo.
Il mondo senza centro
ha un altro centro.
Il sogno placa le
molle della vita,
sospese nella notte
come i pistoni e i ganci
di una fabbrica vuota,
nuda sotto le stelle.
Ma quella quiete è
ascolto. Cessano le spinte
degli assi gravitanti
verso il centro,
gli affetti umani, il
ricordo, il disprezzo,
l’acqua scura
dell’odio, il desiderio giallo
d’ansia, il piacere,
balenio frenetico
nel letto degli
amanti, e la nuda passione,
oscena zucca dagli
occhi rossi, umori
e fiamma su lenzuola
in tempesta, la paura
dal riso ripugnante,
la tana dell’invidia,
e la pietà, giullare
pallido della brutalità.
Tace anche l’io,
chiacchierone e volubile,
gonfiato più d’un
conto col frutto marcio
di qualche conoscenza,
con lo studio scialbo
e con l’arido
orgoglio. E questi impulsi,
senza centro né
cardini, stridono girando
nel buio: giungeranno
forse al silenzio totale.
Senza centro non
vivono e la parola,
ora, non è sapere,
volere, o desiderare,
ma solo esistere: come
roccia o rovo,
come olivo afferrato
alla pietra assetata,
come animale a cui
basta il silenzio
conclusivo del mondo e
beve la notte
come una brocca d’acqua
fresca, sentendo
se stesso e il
firmamento come unica parte
della vita che passa,
paesaggio interiore,
culla del mondo.
Qualcuno, o qualcosa
in noi, conosce questo
centro. Sappiamo
la pietà delle tenebre
e dell’acqua,
di quel che non
vediamo e che ci sfugge
dalle mani per
ritornare: il tempo, già vissuto
come memoria quand’è
ancora presente.
Le immagini di ieri
scoloriscono la tela
del tempo. Percezione
del tempo vissuto:
riflessi del passato
oscurano il presente,
sulla pelle del
ricordo qualche macchia,
l’impressione di
vivere qualcosa senza luce
né conoscenza nella
confusione dell’istante.
Sogno è trovare un
centro in questa vita
d’oscurità esteriore.
Né attrazione,
né vincolo: distacco.
Liberi dal senso,
fuori dal mondo, nel
centro dell’essere,
che non è centro
d’impulsi, ma fuoco vivo
e chiaro dell’assenza
d’ogni costrizione.
Come chiudendo gli
occhi, per esempio,
sfumano i contorni
delle forme visibili,
e c’è un oscuro spazio
di luce
immaginaria con forme
non visibili,
immagini mentali senza
peso né volume,
non oggetti o persone,
niente che si possa
dire con parole
concrete o concetti.
Come il sogno, anche
l’ombra possiede
un suo centro, e
possiede creature:
è un altro mondo,
quieto e senza rumori,
calmo e lento come
acqua che sgocciola
o il passaggio d’una
nuvola biancastra.
Traduzione di Francesco Dalessandro
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